Arch. Mario Vacca

San Nazzaro di Sissa 10 febbraio 1887-Parma 7 novembre 1954

Ancora prima di andare a scuola, imparò dal padre l’uso degli strumenti agricoli: questa grande lezione gli diede quel senso pratico che gli sarebbe servito nell’esercizio della professione, costituendo anzi il suo punto di forza.

Allievo architetto nel corso di specializzazione nell’Accademia delle Belle Arti di Parma, tenuto da Edoardo Collamarini, che lo ebbe in particolare considerazione, si diplomò nel 1910.

La sua preparazione si formò sui testi e sui manuali ottocenteschi e sulle lezioni, oltre che del Collamarini, di Giuseppe Mancini, Mario Soncini, Cecrope Barilli e Arturo Prati: preparazione che si rileva nei primi concorsi, ancora basati sui temi specifici di ripresa degli stili architettonici del passato, quali l’ultimo Gotico e il Rinascimento.

Non è un caso quindi, dopo anche le premesse fatte sulla rinascenza come espressione artistica in grado di sintetizzare la tradizione culturale parmigiana, che il Vacca sentisse la necessità di sperimentarla. A Siena, nel partecipare al concorso per la decorazione del Palazzo delle Poste, lavorò con gli stilemi dell’eclettismo, nella ripresa di motivi neorinascimentali e di materiali tradizionali.

Elementi revivalistici sono ripresi anche nel progetto di Palazzo Comunale per Città di III Ordine del 1910 e nel progetto di un Palazzo per Esposizioni di Belle Arti e una sede per conferenze, per il concorso Curlandese.

Di natura esuberante e volitiva, iniziò subito un’intensa attività professionale, divisa per lo più tra Parma e Milano. Nella capitale lombarda il Vacca si trasferì con la sua famiglia quando, dopo aver insegnato a Bologna al liceo artistico, vinse la cattedra di disegno architettonico al liceo artistico dell’Accademia di Brera.

Studioso di problemi di geometria descrittiva e disegnatore di rara abilità, portò nell’insegnamento il contributo della sua notevole preparazione specifica e soprattutto della sua innata capacità didattica.

Appena fu abilitato alla libera professione, si recò in Toscana per studiare dal vivo l’architettura del Rinascimento.

L’analisi e il rilievo dei prototipi dell’architettura residenziale cinquecentesca di Firenze contribuirono a dare un preciso orientamento alla sua formazione artistica: furono palazzo Strozzi (di Benedetto da Majano), palazzo Medici (di Michelozzo Michelozzi), palazzo Pitti (di Filippo Brunelleschi) e palazzo Rucellai (di Leon Battista Alberti) gli esempi su cui elaborò il suo modello costruttivo.

Il Liberty nelle sue varie espressioni, l’eclettismo, la corrente ubertina e tutte le altre mode del tempo non modificarono minimamente la sua concezione classica, che lo spinse a condurre contro le innovazioni floreali una lunga battaglia. Ammiratore delle costruzioni del Medioevo e del periodo umanistico, il Vacca propose uno stile di transizione tra il Gotico e il primo Rinascimento, ispirandosi a quei modelli che rappresentarono quasi sempre, per il Liberty, l’antitesi.

Quando ormai stava per inserirsi nel gruppo dei più noti progettisti di Parma, scoppiò la prima guerra mondiale e il Vacca fu chiamato alle armi. Ritornò a conflitto ultimato e dovette ricominciare tutto da capo. In quell’Italia del dopoguerra, economicamente dissanguata ma euforica per la recente vittoria, sorsero dappertutto comitati per l’erezione di monumenti celebrativi e anche in provincia di Parma non vi fu comune che non volle il suo.

Molti di questi ricordi marmorei e bronzei portano la firma del Vacca, chiamato dalle rispettive amministrazioni comunali a progettarli. In queste opere, che furono eseguite dal 1920 al 1928, appare sempre una decorosa correttezza formale, unita a una eccezionale tecnica esecutiva.

Si ricordano, tra gli altri, i monumenti di Borgo Taro, Colorno, Sala Baganza, Cortile San Martino e Sissa, molti dei quali furono defraudati poi degli ornati e delle statue in bronzo (1940), alcune di notevole pregio artistico.

Al primo incarico di rilievo, il Vacca potè mettere finalmente in atto le sue idee: il progetto di palazzo Sassi (1925-1927) in Parma, all’angolo di via Cavour e via al Duomo, dove già esisteva alla fine del secolo una antica costruzione di proprietà della famiglia Sforza-Pallavicino. L’edificio, la cui struttura è definita da rigorose simmetrie, impreziosito nelle facciate da eleganti decorazioni pittoriche, in seguito quasi scomparse anche se protette dall’ampia sporgenza del cornicione, si inquadra in una doppia prospettiva, convergente da un lato sulla torre di San Paolo, dall’altro sul campanile del Duomo, con un ottimo equilibrio di rapporti spaziali.

Il Vacca iniziò così la sua carriera con un progetto assai insidioso, perché quell’edificio non aveva analogie stilistiche con l’ambiente architettonico di Parma. Ma la novità del lavoro ebbe larghi consensi, forse proprio perché portava nel cuore del centro storico il gusto di un aristocratico medioevalismo.

Su questa esperienza il Vacca fondò in seguito due progetti di case pluripiane, che stilisticamente ricalcano le linee della prima, una in via Petrarca, l’altra in via XXII Luglio.

Datato al 3 settembre 1922 è il progetto di sistemazione interna degli ambienti e di nuova facciata del palazzo, di proprietà di Vincenzo Paltrinieri, situato in via XXII Luglio 12. Il Vacca intervenne sull’edificio a corte preesistente rettificando il lato interno sud, in prossimità del cortile orientale, creando nuovi ambienti come il cortiletto a nord-est e chiudendo le porte di accesso laterali della terrazza al primo piano. All’esterno vennero mantenuti la stessa impostazione asimmetrica del fronte su strada, le finestre e il portone d’ingresso e l’intervento si risolse nella sola decorazione di facciata, che conferì al palazzo una nuova fisionomia.

In fase di realizzazione le navi del sottogronda e i soli delle lunette che sovrastano le finestre del primo piano si sostituirono alle decorazioni floreali e con vasi della prima versione. In più vennero aggiunti i graffiti a gigli, estesamente degradati e lacunosi.

Forte di colori vivaci e di forme geometriche ben scandite desunte dal linguaggio delle bandiere e dei vessilli, il soggetto pittorico colpisce per il suo carattere fantastico.  Le bizzarre imbarcazioni che sfilano senza scorci in prospetti all’egiziana ammaliano con una suggestione teatrale che riporta alle scene dei primi storicismi cinematografici di Cabiria, e immergono in quel decors che trasfigura ogni qualsivoglia intento documentaristico-ricostruttivo.

Un altro incarico di rilievo, che il Vacca seppe assolvere egregiamente, fu la progettazione e la direzione dei lavori di palazzo Corazza (1928-1929), all’angolo di via Repubblica e borgo Valorio. Le decorazioni in cotto delle cornici, delle finestre, dell’ampio portale con arco a tutto sesto, appositamente disegnate e modellate, sono legate da precise corrispondenze modulari e tutto il ritmo della facciata è regolato dai cannoni dell’aurea proportione, tanto cara agli architetti del XV secolo. L’impianto planimetrico della costruzione è caratterizzato da uno schema semplicissimo: un lunghissimo corridoio passante divide l’ufficio in due parti sevite da due scale indipendenti.

Contemporaneamente a questi lavori il Vacca disegnò con perfetta aderenza alle linee barocche una cappellina votiva collocata d’angolo tra via Padre Onorio e via Adorni.

Negli anni Trenta fu chiamato ad affrontare in provincia due impegnative costruzioni: villa Pizzi, nel Comune di Sissa, e villa Corazza, a Salsomaggiore. La solida struttura della prima, circondata da un portico sorretto da colonne di arenaria, con la sua centralità planimetrica dimostra sino a che punto il Vacca volesse restare fedele alla sua concezione stilistica. La seconda costruzione, in travertino, di dimensioni monumentali, si erge su un’altura vicina al Poggio Diana, immersa nel verde di un parco. L’ampia scalinata, il terrazzo convesso con balaustra e i corpi di fabbrica laterali riecheggiano certi caratteri delle ville palladiane, ma vi emergono anche nettissimi i segni di una sensibilità personale del Vacca.

Sempre nell’ondulato paesaggio precollinare progettò e diresse il restauro del castello di Tabiano, unitamente al piano urbanistico dell’antico borgo (1919-1954). Non si sa con esattezza quando il Vacca venne chiamato a conferire un nuovo assetto al castello, ma i primi disegni sono datati al 1919. L’intervento fu realizzato secondo i criteri del ripristino stilistico e molto spesso della progettazione di nuovi elementi, di spazi e ambienti in stile, mai esistiti, nell’intenzione di ricreare il luogo del castello feudale: è il caso di una delle prime proposte del Vacca, dove scene di battaglia e cavalieri con cavalli bardati istoriavano, per esteso tra il piano terra e il primo, il fronte principale con loggia a sei archi e le ali del cortile, della loggetta, realizzata a sostituzione della prima soluzione con due trifore, delle stesse aperture al piano terra ad arco a sesto acuto, o anche del torrione, notevolmente sopralzato, sul cui fronte principale il Vacca aprì una piccola bifora.

A conferire questo aspetto tardo gotico e neorinascimentale, progettò integralmente la portineria, il caseificio e le case sul retro, dove ogni dettaglio (comignoli, capitelli, scalette e balconi) fu studiato attentamente nelle forme e nell’uso dei materiali: paramenti murari in sasso intervallati da corsi di mattone, archetti in cotto regolarmente ripetuti su tutti i fronti, tessiture in cotto a lisca di pesce, esili colonne in pietra, lanterne, inferriate e cancelli in ferro battuto.

Non si conoscono i nomi degli artigiani di cui il Vacca si servì per realizzare tutte queste opere, a parte quello dello scultore Dossena, chiamato a realizzare il bellissimo camino in marmo rosa della sala da pranzo, con trabeazione scolpita e teste di leone laterali, e quello dello scultore Rossi, chiamato a istoriare le nozze di un membro della famiglia sul bellissimo camino della sala da pranzo dell’appartamento a sud. Per gli interni il Vacca disegnò pavimenti, mobili e porte, lampadari e portalampada e le decorazioni a rombi e gigli delle pareti degli uffici dell’amministrazione. Il soffitto della sala da pranzo con il pergolato fiorito ricorda una delle stanze del Castello Sforzesco, dove però gli alberi arrivano fino al pavimento. Si trattò a tutti gli effetti anche di piano urbanistico: nel borgo progettò la trattoria, la casa del fabbro (autore delle opere in ferro battuto) e la casa del sarto.

Dopo il secondo conflitto mondiale, costruì la chiesa di Gramignazzo di Sissa (1950), che sorse sulle fondazioni di un precedente edificio settecentesco. Il tempio, a tre navate, di notevoli proporzioni, ricalca in pianta e in alzato lo schema romanico-gotico per l’impiego di muratura faccia a vista e per l’uso di sagome, di cornici, e di altre parti decorative che dànno all’edificio una certa aria di autenticità, pur nella scontata artificiosità di un falso stilistico.

Ma l’imporsi di un’architettura ormai incamminata sulla strada della modernità non lasciò completamente insensibile il Vacca.

Realizzando la casa alta di Porta Genova a Milano seppe degnamente contemperare le nuove tendenze con quell’interiore armonia di proporzioni e di motivi classici, che fu per lui, classico per istinto istruzione e gusto, una seconda natura (Copertini).

Nemico dei progetti di massima, studiava tutti i dettagli sino alla loro definizione più minuziosa. Disegnatore di eccezionale talento, abituato a tutte le esperienze di cantiere per quotidiana consuetudine, esigeva che ogni minimo particolare fosse realizzato in piena fedeltà alle linee del progetto.

Nella sua casa circondata dal verde in viale Marche a Milano vide crescergli intorno una famiglia di artisti: la figlia Maria Teresa, diplomata a Brera, il genero Renato Vernizzi, pittore rinomato, e il nipote Luca che rinnovò i successi del padre.

Quando ormai i tempi concedevano poco spazio alle idee e ai gusti del primo Novecento, il Vacca chiuse la sua attività lavorativa, poco prima della morte.

La sua cospicua attività di costruttore si svolse ininterrottamente, dentro e fuori Parma, per un quanrantennio, durante il quale sperimentò e attuò interessanti ritrovati tecnici.

Nessuna delle principali opere da lui costruite andò perduta.

 

FONTI E BIBL.: Parma per l’Arte 1 1955, 48; bacchini, Sissa, 1973, 72-73; G. Capelli, Architetti del Primo Novecento, 1975, 165-169; G. Capelli, Sissa, 1996, 111-114; Gazzetta di Parma 22 ottobre 1992, 20; Gli anni del Liberty, 1993, 146-147.

Da http://www.parmaelasuastoria.it/ita/Vacca-Venturini.aspx?idMostra=38&idNode=291